L’utilizzo di farmaci antipsicotici nel trattamento delle varie forme di disturbo bipolare non è certo una novità. Le forme più gravi di eccitamento maniacale venivano trattate con antipsicotici di prima generazione fin dagli anni ’70. La storia dei farmaci antipsicotici tuttavia comincia con le molecole di prima generazione (antipsicotici tipici o neurolettici) nel 1952, quando l’effetto antipsicotico di clorpromazina fu scoperto per caso da Delay e Deniker. Sempre a partire dagli anni ’50 inizia ad essere studiata quella che diventerà la molecola più estesamente impiegata nella terapia di tutti i tipi di psicosi, l’aloperidolo (Davis 1969). Le proprietà antipsicotiche dei primi neurolettici vengono messe in relazione con la loro capacità di bloccare i recettori delle monoamine, in particolare della dopamina. Nel corso degli anni tale ipotesi dimostrerà tutti i suoi limiti e l’azione dei farmaci antipsicotici verrà inquadrata in un contesto biochimico estremamente più complesso sia per quanto riguarda l’efficacia che per il profilo di effetti indesiderati. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni 90 compaiono i primi studi sui farmaci antipsicotici di seconda generazione. Tali studi mettono in relazione l’effetto combinato del bloccaggio dei recettori per la serotonina e quelli della dopamina con una buona capacità antipsicotica unita ad una minore tendenza a dare effetti collaterali soprattutto di tipo motorio (Mesotten et al 1989), ma anche in questa occasione il meccanismo d’azione si dimostra molto più complesso di quanto inizialmente ipotizzato. Fin dalla loro scoperta gli antipsicotici atipici vedono una progressiva estensione del loro profilo di azione fino a che, nel 2000, l’agenzia statunitense per il farmaco (Food and Drug Administration, o F.D.A.) approva l’uso di alcuni di essi (olanzapina, risperidone, quetiapina ed aripiprazolo) per l’utilizzo, in associazione con gli stabilizzatori, nel trattamento delle forme di mania acuta del disturbo bipolare. Le sostanziali novità cominciano nel 2003, quando l’F.D.A. approva il primo trattamento specifico per gli episodi di depressione nel disturbo bipolare e la combinazione di un antipsicotico di nuova generazione (l’olanzapina) con un antidepressivo (la fluoxetina)inizia ad essere utilizzata nella pratica clinica. Sempre nel 2003 la lamotrigina (un antiepilettico) è il primo farmaco in 29 anni a ricevere formalmente l’indicazione dall’F.D.A. per il trattamento in monoterapia della depressione nel disturbo bipolare. Nel 2006 è, invece, la volta di un farmaco appartenente alla classe degli antipsicotici di ultima generazione (la quetiapina) a ricevere tale indicazione. La quetiapina riceve l’indicazione per il trattamento in monoterapia delle forme acute di depressione nel disturbo bipolare segnando una importante differenza rispetto alla pratica precedente basata sull’utilizzo di antidepressivi (o più raramente di antiepilettici) nella terapia delle fasi depressive del disturbo bipolare. Il percorso che inizia con la causale scoperta della prima reale possibilità di trattare le psicosi maggiori ed arriva alle più recenti terapie antidepressive permette alcune considerazioni: Una classe di farmaci inizialmente impiegata per il controllo di gravi sintomi acuti quali i deliri, le allucinazioni e l’agitazione psicomotoria ha progressivamente esteso il loro spettro d’azione ad includere aspetti come la protezione dalle fasi di eccitamento maniacale ed il mantenimento di una condizione di stabilità e di buon funzionamento. Farmaci che venivano inquadrati nella loro prima definizione come “tranquillanti maggiori”, ponendo con ciò l’accento sulla tendenza ad un uso contenitivo e sedativo del farmaco anziché curativo in senso vero e proprio, sono attualmente utilizzati come efficaci presidi contro gli episodi di depressione del tono dell’umore. Esistono una serie di lavori recenti che spiegano dal punto di vista biochimico come alcuni dei farmaci di ultima generazione agiscano sui neuro mediatori del sistema nervoso centrale funzionando come stimolanti e come regolatori del tono dell’umore anziché come sedativi. Tali studi chiamano in causa meccanismi farmacologici complessi come l’agonismo parziale sui recettori dopaminergici dell’aripiprazolo, l’attivazione del sistema serotoninergico e noradrenergico da parte dello ziprasidone e l’azione dei metaboliti della quetiapina sul sistema serotoninergico, dopaminergico e noradrenergico per spiegare l’effetto di questi farmaci nella stimolazione del sistema nervoso centrale.
Al di la della spiegazione puramente biochimica del fenomeno non si può evitare di apprezzare una sorta di evoluzione delle farmacoterapie che, partendo dalla terapia dei fenomeni psicopatologici più gravi, hanno transitato verso un progressivo miglioramento del profilo di tollerabilità oltre che di efficacia per approdare infine al trattamento di forme patologiche diverse in cui lo scopo non è più la gestione del sintomo, ma il raggiungimento ed il mantenimento di una condizione libera da disturbi con il benessere dei pazienti in trattamento.
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